“Il fiore del deserto” di Pasquale MORRA

La bella chiesa della madonna delle vergini e’ la stessa anche oggi, a parte le vestigia di recenti e più remote imbiancature; di quando in quando qualche colombo vi svolazza attorno, e si sente a quest’ora meridiana il rintoccare delle campane che non sapresti dire se a morto, ma certo non le senti festose; vedi però in questo rigido dicembre alla vigilia di Natale la gente entrare in chiesa con certa umiltà, e nell’aria qualcosa d’ineffabile come di una malinconia; a pochi metri di distanza uscendo dalla chiesa sulla dritta v’è l’edificio dei Cerrato, due piani e l’attico; al piano terra, invece, dov’era il bar, vedi, adiacente al basolato della piazza, due saracinesche chiazzate di ruggine in ogni dove, e tutta la facciata dell’edificio arabescata dai trastulli del vetusto intonaco; a quei tempi quando entravi nel bar dalla parte destra proprio difronte trovavi il pingue Nando alla cassa; dall’altra entrata scorgevi da subito il piccolo uomo, Enzo, che si arrampicava al braccio della macchina per preparare  il caffè mentre parlava con foga del Napoli di Maradona e con tono autoritario ordinava al guaglione vicino a lui di servire al “bancone”ora questo ora quell’altro cliente, e lo faceva sempre con tanta gentilezza nominando costoro sempre senza ometterne i titoli acquisiti, o, in mancanza, anteponendo il “don” al nome; il bar Cerrato era tra i più rinomati della provincia di Salerno – come oggidì può dirsi del bar Calabrese di Pompei – e gli amatori della tazzina vi accorrevano a frotte; Nando, buonanima, aveva ereditato il bar dal defunto padre don Alfonso dopo anni di apprendistato, ed era un vero piacere sentirlo con passione parlare della nostra aromatica bevanda: le due piante da cui si ricava, la “robusta” e la “arabica”; il giusto dosaggio tra queste, la miscela; la tostatura ed il tempo dell’estrazione dalla macchina; il numero dei giri del macinino elettrico, tanto per dire, e via discorrendo.
Ora quello che odo ben distinto è il vociare spensierato dei ragazzi ed il rumore delle pallonate che essi infliggono alle morte saracinesche; e penso di come la natura si faccia beffe di noi, così  che non posso non andare con la mente al grande recanatese, alla Ginestra, al suo “fiore del deserto” che con umile dignità attende sulle pendici aride del Vesuvio il proprio ineludibile destino. (Pasquale MORRA).

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