ROBERT LUIS STEVENSON E L’ISOLA DEL TESORO di Domenico Della Monica – (prima parte)

 

Tusitala, narratore di storie, così fu chiamato Stevenson dagli indigeni di Upolu, e in questo termine è racchiusa tutta la sua vita perché il piacere di raccontare fu la spinta della sua esistenza inquieta e avventurosa.

Nato a Edimburgo il 13 novembre 1850, Robert Luis Stevenson non ebbe un’infanzia serena, anzi fu un’infanzia tremenda. Con un’eredità familiare di malati e nevrotici nelle membra, soffriva di raffreddori, bronchiti, polmoniti, disordini gastrointestinali , accessi improvvisi e inesplicabili di febbre, tutte le varietà possibili e immaginabili di malattie infantili, e fino ai dodici anni non passò un solo inverno senza che i suoi genitori non tremassero per lui. Trascorreva lunghi periodi in casa, lontano dai coetanei, ad ascoltare lunghe e misteriose storie di briganti e di spettri che la governante gli raccontava. Il padre, ingegnere, era un uomo rigido ed esigente, convinto che fosse giusto educare i figli alla rinuncia e al sacrificio secondo i princìpi della religione calvinista; la madre, di origine francese, era un tipo allegro e vivace e da lei Robert ereditò i lati più aperti e cordiali del suo carattere.

Poiché i suoi malanni gli impedivano di frequentare con regolarità la scuola, studiava privatamente, leggeva tutti i libri possibili. Divorava ogni libro immergendosi soprattutto nella lettura di romanzi inglesi e francesi, e quando era costretto a lasciare la lettura il suo spirito era in fiamme, trascinato in un turbine di immagini animate, di parole che risuonavano nei timpani, come il tumulto delle onde sugli scogli. Nelle notti d’inverno, la tosse gli impediva di dormire e allora tornavano ad ossessionarlo le paure dell’inferno, specie nelle notti di tempesta, quando il vento urlava contro Edimburgo . Il padre, seduto accanto al suo letto, cercava di calmarlo, gli raccontava storie. Talvolta la governante lo sollevava dal letto, lo avvolgeva nelle coperte e lo avvicinava alla finestra: guardava nella notte blu, a lungo, fino al chiarore dell’alba, annunciata dalle carrette provenienti dalla campagna che, con nitriti di cavalli, schiocchi di frusta, grida di vetturali, passavano sotto le finestre di casa. Fino alla fine dei suoi giorni Stevenson conservò nel suo cuore questo scrigno di immaginazioni e terrori infantili. Robert, in fondo, rimase sempre, profondamente ragazzo: a trent’anni giocava con i soldatini di piombo insieme a Lloyd, il figlio della moglie.

 

                                            (Mappa di Edimburgo del 1850)

All’età di diciotto anni, suo padre lo indirizzò alla facoltà di ingegneria: vedeva nel suo ragazzo il nuovo costruttore di fari, di dighe, di porti. Al giovane Robert, tutto sommato, piaceva il lavoro da ingegnere: gli consentiva di vivere all’aria aperta, girare per i porti, visitare isole selvagge, assaporare i pericoli del mare, godere del vertiginoso spettacolo dei venti che si scatenavano sulle foreste e sulle acque e anche dell’improvvisa calma del mare che accarezzava i bordi dentellati delle rocce e degli scogli. Ma detestava il lavoro d’ufficio e i problemi tecnici.  E piantò tutto. Seguirono a questa decisione quattro anni di vita irregolare, di contrasti con il padre e la società borghese di Edimburgo che il giovane Robert definiva “un mare di falsità e di contraddizioni” e alla quale si sentiva estraneo.

Si opponeva a qualsiasi forma di autorità, rifiutava tutti gli insegnamenti dei genitori e restituiva alle parole il loro vero significato che esse avevano perduto, usate com’erano per esprimere soltanto falsità. Da questo periodo di crisi Stevenson uscì deciso ad allontanarsi dalla fede calvinista e ad abbandonare la facoltà di ingegneria per dedicarsi al suo unico e vero interesse: scrivere. Sempre per non dare un dispiacere ai genitori decise di laurearsi in giurisprudenza, ma agli studi universitari affiancava la pubblicazione di articoli su riviste di letteratura e l’osservazione dell’ambiente scozzese. Il grande entusiasmo, lo stupore e l’incanto che destavano in lui gli spettacoli della natura incontaminata e selvaggia lo spinsero ad interessarsi soprattutto degli HIGHLANDS, la regione degli altipiani a nord, terra ricca di memorie, abitata da gente fiera che inutilmente aveva cercato di difendere la propria cultura e le proprie tradizioni dal dominio degli inglesi. Gli HIGHLANDS aspri e solitari furono il rifugio di Stevenson negli anni della ribellione: spesso vi ritornò e finì per descrivere quei paesaggi e quella gente in alcuni dei suoi romanzi più impegnativi. A ventitré anni, sempre a causa della sua malattia, trascorse un inverno nel sud della Francia e poi a Parigi. Lì cominciò a pubblicare i primi racconti mentre leggeva avidamente tutto ciò che in patria era proibito: le opere di Darwin sulle origini della vita, i primi studi degli psicologi che in quegli anni si occupavano di fenomeni misteriosi come i sogni, il sonnambulismo, la doppia personalità. Questi studi saranno alla base di storie affascinanti come “Lo strano caso del dottor Jekill e mister Hyde” e “Il signore di Ballantrae”. Negli anni seguenti Stevenson, nonostante la malferma salute, sempre spinto dalla curiosità e dall’inquietudine, viaggiò molto: in Francia nel 1878 incontrò una signora americana, Fanny Osbourne, venuta a Parigi con i suoi tre figli per studiare pittura: un ardente raggio di tenebra lo infiammò e gli scaldò il cuore per tutta la vita. Ma lei era sposata e dovette tornare in America per divorziare. Fu questo per Stevenson un periodo di intenso lavoro, anche se il successo era ancora lontano: scrisse alcuni saggi, racconti e un romanzo a puntate, “Le nuove mille e una notte”; raccontò i suoi viaggi in Francia in due libri “Un viaggio nell’entroterra” e “Viaggi con un asino nelle Cevennes”. In questi racconti, oltre a descrivere il paesaggio naturale, la vita e i costumi dei paesi attraversati, egli cercava di ritrovare nelle popolazioni selvagge e povere delle Cevennes, in Francia, aspetti e costumi di vita delle popolazioni scozzesi che tanto amava.

E fu insieme con i suoi scozzesi, su una nave di emigranti, gente povera e fallita, che nel 1879 Stevenson partì: con poco denaro, poca salute e molto entusiasmo andava a raggiungere Fanny, a conoscere nuove terre e popolazioni diverse. In America purtroppo la sua salute peggiorò, il denaro finì e gli editori si rifiutarono di pubblicare il suo diario di viaggio, giudicato troppo squallido e triste. Dopo un anno di stenti e povertà, Robert e Fanny sposi andarono a vivere per un po’ su un’alta montagna, in un villaggio minerario abbandonato, a Silverado. Cose abbandonate, case disabitate, miniere deserte: tutto diveniva misterioso e spettrale. Stevenson tenne un diario che dopo tre anni tramutò in libro e pubblicò col titolo “Gli occupanti di Silverado”.

Tornato in Europa, Stevenson scrisse le sue opere più impegnative e finalmente arrivò il successo: “L’isola del tesoro”, “Lo strano caso del dottor Jekill e di mister Hyde”, “Il ragazzo rapito” e “La freccia nera”. Questi romanzi, pubblicati a puntate su vari giornali, riscossero il favore di una vasta fascia di lettori che si avvicinavano per la prima volta alla letteratura, dopo che una legge del 1870 aveva reso obbligatorio a tutti i cittadini inglesi di imparare a leggere e a scrivere. La chiarezza e la semplicità del linguaggio di Stevenson, il fascino delle storie attiravano molti lettori specie tra coloro che non avevano una vasta cultura.

Nell’agosto del 1887, con la famiglia, lasciò definitivamente l’Europa per imbarcarsi in una lunga crociera nel Pacifico che doveva rivelarsi meno entusiasmante del previsto, dato l’incredibile costo del viaggio (duemila sterline) e le traversie incontrate, sballottati tra burrasche e bonacce. Dopo diciotto mesi di vagabondaggio giunsero a Samoa, arcipelago della Polinesia, dove Robert decise di stabilirsi: la dolcezza del clima giovava alla sua salute.

Le Samoa (Stevenson forse non lo sapeva, ma probabilmente lo sospettava) sarebbero state l’ultimo capitolo di una vita spesa a fuggire costantemente dalla “Strega della Notte”, come chiamava la malattia polmonare che lo perseguitava fin dall’infanzia. Nelle Samoa, Stevenson costruì da zero una casa che chiamò Vailima, “cinque ruscelli”, e ci visse con la moglie, il figliastro Lloyd, la figliastra con il suo bambino e la vecchia madre. Per Stevenson fu una fatica vivificante e sfiancante al tempo stesso, che i samoani impararono ad ammirare e rispettare.

( FINE PRIMA PARTE )

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